INQUADRAMENTO CLINICO E TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE
Depressione o tristezza?
La depressione è un’esperienza complessa, presente in varie condizioni di vita e disturbi, la cui gravità può oscillare da forme transitorie e superficiali, a una compromissione seria della capacità di condurre una vita lavorativa, sociale o familiare. Sentirsi tristi o giù di morale può essere una risposta normale a degli eventi dolorosi, come la perdita di una persona amata, una separazione, un fallimento scolastico o lavorativo.
La depressione come entità clinica, tuttavia, si differenzia dalla comune tristezza per diversi motivi.
Innanzitutto, mentre la tristezza è un’emozione, la depressione è una alterazione dell’umore. Possiamo pensare alla differenza fra emozioni e umore come al rapporto fra una piccolo gruppo di note musicali, o battute, e la melodia complessiva. Vi sono musiche ritmate, energiche, dal sottofondo gioioso o arrabbiato, e musiche lente, melanconiche, disperate, e via dicendo. All’interno della musica che giudicheremo come complessivamente “gioiosa”, vi possono essere dei motivi, delle battute, un po’ angosciate o tristi, che lasceranno ben presto il posto a nuove battute più solari (naturalmente può valere anche il contrario).
Mentre l’emozione corrisponde al breve motivo o sequenza di note, l’umore è la qualità affettiva dell’intero brano musicale.
Le emozioni sono delle reazioni affettive, psicofisiologiche, del nostro organismo a degli stimoli ambientali. Possono alterare la percezione soggettiva delle cose, possono anche farci reagire con un’azione, ma di solito le emozioni durano poco tempo.
L’umore, al contrario, tende ad essere meno intenso ma più duraturo delle emozioni. Descrive come ci sentiamo in relazione al nostro ambiente, e nella normalità di tutti quanti tende a variare da forme più “alte” e positive, a forme più “basse” e negative, con una gradualità di affetti che vanno, nel primo caso, dalla serenità alla gioia, all’entusiasmo, nel secondo caso dalla malinconia alla tristezza, fino alla disperazione più nera.
Disturbi dell’Umore
I disturbi dell’umore corrispondono ad una alterazione patologica, per intensità, qualità e durata, delle normali variazioni che di solito segue il nostro umore nei vari momenti di vita. Se immaginiamo una ipotetica linea mediana di “neutralità affettiva”, normalmente l’umore si presenta come un’onda con andamento sinusoidale.
Per alcune settimane ci sentiamo più vitali e allegri, alcune settimane o mesi dopo ci possiamo sentire più melanconici, stanchi, svogliati o irritabili, senza per questo perdere la capacità di provare entusiasmo o gioia in alcune circostanze.
Le variazioni dell’umore divengono problematiche quando i “picchi” in alto o in basso sono troppo accentuati (in questo caso, si parla di “episodi depressivi” ed “episodi maniacali”), quando si fa fatica a recuperare un umore positivo dopo una fase depressa, oppure ancora quando l’alternanza tra le fasi positive e negative oscilla troppo rapidamente.
In questo senso, la depressione è uno di diversi possibili quadri di disturbi dell’umore. Nel DSM-5 (manuale diagnostico e statistico della malattia mentale, V revisione; APA, 2013) i disturbi dell’umore – non indotti da sostanze o farmaci- sono:
- disturbi depressivi: depressione maggiore, distimia (depressione persistente), disturbo disforico premestruale
- disturbi bipolari: disturbo bipolare I, disturbo bipolare II, ciclotimia
Sintomi della depressione
Per poter parlare di “depressione” da un punto di vista clinico, occorre che siano presenti diversi sintomi, ascrivibili a quattro aree: l’area affettiva-emotiva, quella cognitiva-percettiva, quella neurovegetativa e quella psicomotoria.
Sintomi affettivi
Fondamentali sono i sintomi della sfera affettiva. Il principale è l’umore depresso, cioè un senso di tristezza opprimente e costante, che invade quasi ogni momento della giornata, la maggior parte dei giorni. Spesso le persone si trovano anche incapaci di provare piacere per le cose che prima davano gratificazione, come giocare a calcetto, guardarsi un bel film, dedicarsi al proprio hobby, etc. (anedonia). Altri vissuti dolorosi sono legati al senso di inadeguatezza e di perdita, percepiti anch’essi come condizioni intrinseche o immodificabili. A volte, ci si sente pervasi da sentimenti di indifferenza, aridità, o addirittura dalla mancanza di sentimenti e da un senso di vuoto, tutte esperienze molto penose.
Sintomi cognitivi
Rispetto ai sintomi cognitivi, le persone possono incontrare difficoltà a concentrarsi, a seguire un discorso, a prendere decisioni anche banali. Tutti i pensieri sembrano dominati dagli stessi temi ricorrenti e dolorosi, che di solito riguardano forme di autosvalutazione (“sono un cretino, un buono a nulla, una persona cattiva….”), preoccupazioni economiche o sulla propria salute, pessimismo e visione negativa degli altri (“nessuno mi può aiutare / capire, la gente è crudele e nella vita mi aspetto solo brutte cose….”). Inoltre, la persona può avvertire una sospensione del tempo, come se non esistesse più un futuro o fosse tutto drammaticamente “fermo”. A volte vi può essere un pensiero relativo alla morte, che va da considerazioni di tipo esistenziale sul senso della vita e della morte a domande su “come sarebbe il mondo senza di me”, fino all’ideazione suicidaria, non sempre consapevole.
Sintomi neurovegetativi
Tra i sintomi neurovegetativi della depressione, vi sono l’alterazione del sonno (di solito, caratterizzata da risvegli precoci con difficoltà nel riaddormentarsi e sonnolenza durante il giorno, incubi e sonno qualitativamente disturbato), aumento o perdita di appetito, sentirsi eccessivamente stanchi, fiacchi, pesanti, in stato di torpore (astenia), perdita del desiderio sessuale o difficoltà di erezione.
Sintomi psicomotori
A livello psicomotorio, spesso si osserva un rallentamento: le persone depresse tendono infatti a camminare con estrema lentezza, come se ogni movimento costituisse una grande fatica; possono trascorrere molto tempo a letto, anche per tutto il giorno; la mimica facciale e gestuale è ridotta al minimo; si tende a parlare poco o con fatica, a voce bassa e talvolta monotono; inoltre, la depressione porta le persone a trascurarsi sia nell’abbigliamento e nell’alimentazione, che nell’igiene personale.
In psicologia clinica si fa una distinzione fra sintomi di depressione, episodio depressivo maggiore e disturbo depressivo. I sintomi di depressione possono fare parte di una pluralità di esperienze umane, come il lutto di una persona cara o le reazioni ad una perdita (ad es., del lavoro), oppure fare parte di un quadro clinico più complesso, come un disturbo di personalità. Inoltre, possono essere secondari ad una condizione medica (per es., diabete, ipo/ipertiroidismo, morbo di Parkinson, sclerosi multipla), il cui screening è molto importante prima di valutare la depressione come entità clinica a sé stante.
Si parla di episodio depressivo maggiore quando, in assenza di altre cause (mediche, psicosociali…), una costellazione di sintomi si presenta assieme, per un periodo continuativo (secondo il DSM-5, almeno due settimane consecutive), creando forte disagio e un grado variabile di compromissione nello svolgimento delle attività quotidiane, lavorative o sociali. Mediamente, un episodio depressivo dura dai 6 mesi ad un anno e può ripresentarsi nella vita, con un rischio in aumento dopo ogni episodio. Quando si osserva una ricorrenza negli episodi depressivi, ci si può orientare per un disturbo depressivo.
Empatizzare con la depressione
Di solito nei manuali e siti internet si parla della depressione attraverso l’elenco dei suoi sintomi, come se fosse una lista della spesa. Anche le persone, oggi abituate a fare “autodiagnosi” tramite il web, apprezzano una presentazione del genere, che in effetti può aiutare a dare un senso, una prima forma di comprensione, tangibile, a qualcosa che fa male e crea disorientamento. Tuttavia, non sempre questo può dire molto sulla gravità del disturbo, sul suo significato, su come affrontarlo e su come poterlo capire “dall’interno”.
Attraversare la depressione è come finire in una landa fredda, buia e desolata. Per chi prova a stare vicino alla persona gravemente depressa, l’impressione è come di osservare un buco nero che risucchia ogni energia vitale.
Può fare paura, e difatti gli individui escogitano molte strategie per starci a contatto il meno possibile. Alcune persone depresse si ingaggiano in una sequenza di attività snervanti, pur di tenere la testa “impegnata”; i familiari della persona depressa in una fase iniziale si sforzano di “rianimare” il congiunto, di spronarlo a reagire (anche con commenti fuori luogo), quando sentono la frustrazione dei loro sforzi, possono cominciare ad evitarla.
Ciò che spesso viene trascurato, è che a volte non serve dire qualcosa di particolare: per la persona depressa può voler dire molto trovare qualcuno capace di “stare” insieme a lei, anche quando sembra che il buco nero abbia risucchiato quasi ogni speranza.
Perché ci si ammala di depressione?
Alcune persone si deprimono quando sentono di essere abbandonate dalle figure che amano, o di non essere protette e amate abbastanza; di solito queste sono persone sensibili alle rotture interpersonali, facilmente a rischio di sentirsi sole, impotenti e fragili. Altri individui, invece, si deprimono quando sentono di non riuscire a raggiungere i propri standard. Sono persone competitive, perfezioniste che, non riuscendo a vivere all’altezza dei propri criteri elevati, finiscono col sentirsi fallite, inutili, con poco controllo e, a volte, in colpa. Talvolta si osserva l’instaurarsi di un circolo vizioso dove, per ridurre il senso di inadeguatezza, ci si ripropone di raggiungere delle mete molto elevate; la difficoltà nel raggiungere questi obiettivi elevati, aumenta il senso di fallimento, esacerbando ulteriormente lo stato depressivo.
A volte è possibile rintracciare un evento precipitante riconoscibile, come l’uscita di casa di un figlio, un problema sul luogo di lavoro, ma di solito l’entità della risposta personale appare esagerata. Altre volte, addirittura, sembra che la depressione si generi “dall’interno”.
Questa osservazione, insieme alla presenza di elevata familiarità per i disturbi dell’umore e alla buona risposta di varie forme depressive ai farmaci serotoninergici, ha fatto pensare che alla base di queste problematiche vi siano componenti biologiche e genetiche. Contestualmente, molti studi hanno evidenziato un ruolo cruciale giocato da eventi di vita avversi nell’infanzia e ad età successive.
L’ipotesi oggi più accreditata è quella del cosiddetto “modello diatesi-stress”: alcune alterazioni genetiche porterebbero ad una vulnerabilità biologica specifica che, tuttavia, si esprime solo quando l’individuo è esposto a degli eventi stressanti. Esperienze di trascuratezza, abuso o altri problemi nella vita affettiva-relazionale del bambino possono attivare una risposta allo stress eccessiva, per cui in futuro l’adulto sarà più sensibile ad eventi stressanti lievi.
E’ molto importante, nell’indagine sulla depressione, valutare quali possono essere stati i fattori di stress nell’infanzia e quali quelli attuali; a volte, la depressione per un grave trauma emerge molti anni più tardi, quando un evento recente “riattiva” la vecchia ferita aperta. Ciò che conta più di tutto, è il significato che la persona attribuisce agli eventi che le capitano.
La questione del rapporto fra “natura e cultura”, comunque, rischia di oscurare l’importanza dell’esperienza soggettiva di questo disturbo, che cambia drasticamente da una persona all’altra e condiziona le risposte agli interventi terapeutici. In questa sede è impossibile dare piena voce a tutte le condizioni umane sottese all’esperienza depressive (ambizione per altro impossibile, dal momento che il “senso” può essere costruito solo all’interno di un dialogo “vivo”). A titolo puramente esemplificativo, presentiamo alcune condizioni “tipiche”.
Atwood, un esponente della prospettiva intersoggettiva, un ramo della psicanalisi contemporanea, afferma che “ci si deprime perché sono successe delle cose deprimenti nella propria vita”.
In alcuni casi la depressione può essere una risposta di lutto bloccata. In tal caso, occorrerà rimettere in moto il naturale processo del lutto, occupandosi in maniera peculiare dei motivi che hanno portato al suo arresto. Secondo Freud, il lutto si trasforma in un disturbo depressivo quando la persona nutriva sentimenti intensi, quanto contrastanti, verso la persona deceduta; nell’impossibilità di esprimere apertamente la rabbia verso il caro estinto, tale sentimento comincerebbe a rivolgersi contro il Sé, perseguitando l’individuo con vissuti di colpa e inadeguatezza. Secondo altri psicanalisti contemporanei, rimanere “bloccati” nella fase depressiva del lutto può corrispondere, molto più semplicemente, a una difficoltà nell’accettare la perdita: deprimersi è come a smettere di vivere, “se non vivo non posso sentire il tempo che scorre e che va avanti in assenza della persona che ho perso”.
A volte, possono subentrare deformazioni cognitive e affettive ulteriori, come accade ai fratelli e sorelle di bambini morti, i quali, per aiutare i genitori, devastati dal lutto, si identificano col fratellino morto, per permettere alla famiglia di illudersi che non sia “davvero morto”, salvo poi che il bambino vivo smette di vivere la propria vita, arrivando così, da adulto, ad un senso di “morte emotiva”.
Questo tema apre ad un altro campo psicologico cruciale in alcune esperienze della depressione: quello definito di “accomodamento patologico” (Brandchaft). Questa condizione si verifica quando il bambino cresce in un ambiente dove la sua soggettività, la sua personale visione sul mondo ed il suo bisogno di autonomia, vengono costantemente soffocati e sostituiti con la soggettività (o visione del mondo) dei suoi genitori.
Ogni tentativo di esprimersi in modo autentico ha dato luogo a intense reazioni negative da parte di chi prendeva cura di lui, come espressioni di disperazione nel genitore o di aggressione verso il bambino. Per evitare di “distruggere psichicamente” il genitore (dal quale il bambino dipende emotivamente), o di sentirsi emotivamente abbandonato, il bambino può sviluppare un adattamento basato sulla soppressione della propria autenticità. Da adulto potrebbe avvertire un doloroso sentimento di “qualche cosa che non va”, senza però riuscire a identificare di cosa si tratti.
Questa è una condizione molto pericolosa per lo sviluppo di forme di depressione ricorrenti e che, purtroppo, è anche molto difficile da modificare, per via della rigidità dello schema mentale da cui si genera.
A volte per le persone può essere necessario vedere la depressione come un loro esclusivo problema; quando, nel corso della terapia, riescono a contattare le parti di sé che sono state invalidate, poco viste e riconosciute, può emergere una forte rabbia che, sebbene possa spaventare, apre la strada allo sviluppo di una migliore capacità di ascoltarsi.
Trattamento della depressione
Alla luce dell’ampio discorso fatto qui sopra, si capisce come il trattamento della depressione debba essere per forza di cose “ritagliato su misura”, alla luce delle specifiche forme e ragioni che assume nella vita della persona. In linea ipotetica, si può valutare l’utilizzo combinato di:
– sedute di psicoterapia espressiva per favorire lo sviluppo delle capacità di mentalizzare e integrare i diversi codici dell’esperienza affettiva, modificare le rappresentazioni di sè e degli altri disfunzionali, affrontare le ambivalenze rispetto alla possibilità di “guarigione” ed agli altri trattamenti in essere
– sedute di terapia di coppia o familiare, per affrontare le dinamiche relazionali che perpetuano lo stato depressivo, e/o per accogliere l’impatto della depressione sui congiunti del paziente, stimolando le risorse di resilienza familiare
– interventi di psicotraumatologia volti a elaborare eventuali lutti o traumi irrisolti che “bloccano” la persona
– un trattamento farmacologico, ad esempio con farmaci serotoninergici o, a seconda del quadro clinico e degli aspetti idiosincrasici (cioè unici della persona), con stabilizzatori dell’umore. L’importante è che l’indicazione di trattamento farmacologico venga effettuata da una figura competente, quale lo psichiatra, con un monitoraggio ed eventuale ri-valutazione in itinere del piano di trattamento, e con un confronto multidisciplinare fra i professionisti coinvolti nel precorso di cura (psicologo-psicoterapeuta e psichiatra-famarmacologo).
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