Di Giuseppe Capasso.
S. arriva da me contattandomi via mail e dicendosi interessato al Trauma Sensitive Yoga. E’ seguito da uno psicoterapeuta a Milano. Non è quest’ultimo che me lo invia ma è lo stesso S. che, grazie ad una sua ricerca su internet, ritiene che quel tipo di pratica potrebbe essergli utile.
STARE NEL PRESENTE, SENZA UNA STORIA
Inizialmente facciamo un paio di pratiche di prova. Io non chiedo mai la storia personale ai pazienti, non mi interessa ed anzi preferisco così per non dover fare ulteriori passaggi di pulizia mentale rispetto a quelli che potrebbero essere miei pregiudizi o tentativi di preparare o indirizzare le pratiche. Mi rivela giusto qualche problema di ansia sociale e relazionale in generale che peraltro nella sua postura e comportamento mi appaiono evidenti da subito.
Concordiamo un numero di pratiche minimo necessarie per dare intensità al lavoro sul corpo. Progressivamente percepisco che per lui è più adatto un percorso di Mindfulness e così sarà: un percorso che durerà sei mesi ogni settimana con qualche breve interruzione.
STRUTTURA DEL PERCORSO
Lo schema è sempre lo stesso: si parte subito con la pratica e poi una volta terminata c’è uno spazio in cui il paziente, se lo desidera, può descrivere l’esperienza fatta. Andando avanti nel tempo con le pratiche – i pazienti, ognuno per come può, si impegnano a praticare anche a casa e nel quotidiano, sia formalmente che informalmente, con l’aiuto di files audio e diari da tenere – capita anche che il soggetto voglia descrivere, prima di iniziare la pratica, qualche esperienza fatta durante la settimana.
SFIDE INIZIALI
Nel primo periodo durante le pratiche sedute S. fa fatica a conservare la posizione stando fermo, anche per durate brevi, perché sente dolori in varie parti del corpo. Una delle condizioni di laboratorio delle pratiche di Mindfulness è il consegnarsi all’immobilità – seduti o sdraiati ad occhi chiusi – per rivolgere l’attenzione all’interno, al corpo: condizione al giorno d’oggi non frequente, ma proprio per questo portatrice di sensazioni – fisiche ma non solo – su cui potere lavorare. E infatti quello che emerge progressivamente dalle sue descrizioni è questo sentire il corpo, in modo doloroso, in particolare il ginocchio sinistro, cosa che lo costringe a distendere continuamente la gamba durante la pratica. Soprattutto a tenere la sua attenzione sul quel fastidio, su quel dolore, ad identificarsi con esso vivendolo come disturbo rispetto a tutto il processo di consapevolezza nella pratica.
PASSAGGI EVOLUTIVI
Andando avanti nel tempo, grazie alla pratica costante, avverranno due passaggi fondamentali rispetto a questo sentire nel corpo: nel viaggio che aveva dovuto affrontare per andare e tornare da una vacanza si era messo alla guida per molte ore e “inizialmente sentivo qualche fastidio al ginocchio ma poi ho guidato per 5 ore e non ho avuto problemi, non ci ho neanche più pensato…”. Sarà così poi anche nelle pratiche condivise, corpo seduto immobile per i 40/45 minuti di ogni pratica, il dolore al ginocchio qualcosa di occasionale ma sicuramente tollerabile e non più fonte di avversione.
Questo apre successivamente in S. un nuovo spazio di consapevolezza – dopo qualche mese di lavoro condiviso – che rivelerà in un inquiry post pratica: “mi accorgo ora che il mio corpo prova sensazioni fisiche, manda segnali, ma soprattutto che sono in grado di sentirle e spesso anche di riconoscerle ed associarle a sensazioni emotive che poi integro mentalmente. E soprattutto un certo sentire doloroso, come tonalità emotiva che ora emerge, lo associo ad eventi del passato, ma finalmente posso permettermi di sentirlo ed anche di lasciarlo andare, perché nel momento in cui mi permetto di sentirlo mi accorgo che non succede niente e che questa sensazione poi passa…”.
SOPRAVVIVERE vs VIVERE
Condivido con S. che per grande parte della sua vita e fino ad allora si era “conservato” come in una bolla in uno stato di “assenza” rispetto al mondo interno ed esterno, stato che però gli aveva permesso di sopravvivere, di esistere ma non di vivere: la paura dominava ogni istante della sua vita, gli impediva di relazionarsi e produceva indirettamente dolori fisici tali da tenere lì in modalità continua ed ipocondrica la propria attenzione.
Ma il problema di fondo era stato che fino ad allora – quella che poi divenne per lui la scoperta illuminante, quello che chiamiamo “insight” – neanche si era reso conto di avere avuto paura da sempre, e questa era diventata la sua sensazione di fondo: sentire che questa modalità emotiva e fisica controllava tutto, relegandolo in una bolla protettiva annichilente dove solo il mentale costruiva un sé ed una realtà che non esisteva, adattando l’uno e l’altra alla necessità di sopravvivere ogni giorno.
ESPERIENZA AUMENTATA
Andando avanti S. porterà nelle pratiche – e soprattutto nel suo quotidiano – una grande ricchezza di esperienze dirette e vissute, una nuova ed ampia consapevolezza di quelle che stava vivendo ora come nuove esperienze, condizionate ma intere – corpo emozioni e mente – consapevolezza che finalmente poteva utilizzare giorno dopo giorno permettendogli di uscire andando per locali, relazionarsi diversamente sul lavoro, iscrivendosi ad una scuola di teatro e, non ultimo, trasferire la propria esperienza nel percorso di psicoterapia.
PAURA E NEUROCEZIONE
Potremmo dire che la paura è un’emozione, uno stato emotivo. E di solito, a seconda delle condizioni, è uno stato diffuso oppure un sentire emotivo che ha una propria durata, un inizio ed una fine.
La neurocezione attiva lo stato, di solito per una minaccia reale ma anche presunta, i processi biochimici nel corpo si modificano e poi, quando quello che viene avvertito come pericolo cessa, si tende a tornare in uno stato di omeostasi psicofisica. Questo in condizioni reattive “normali”. A prescindere dal fatto che quello che ci sta accadendo sia dettato da un’idea o da una situazione reale, quello che conta è che questa emozione la riconosciamo come tale, la identifichiamo come paura con tutto il conseguente processo di risposta e, forse più difficile, ne riconosciamo il momento dell’insorgere.
ACCORGERSI DELLO STATO EMOTIVO DI FONDO
A volte, nella vita delle persone, capita di non essere consapevoli che il proprio stato emotivo di fondo è quello della paura: primo perché non si riconosce quell’emozione, come e perché si manifesta e tantomeno l’aspetto che questa risulta dominante verso le altre emozioni, col conseguente esito di coprire tutta la gamma delle tonalità emotive e, soprattutto, di portarti via e farti vivere in una dimensione solo mentale, sempre disconnesso dal corpo e dai segnali che questo, nel tempo, ti manda. Una condizione di fondo, uno stato che, insorto per necessità difensive, diventa la normalità senza però esserne consapevole.
Diventarne consapevoli apre finalmente lo spazio per permettersi di sentire nel corpo – senza paura di averne paura… – le manifestazioni della paura, del terrore a volte, dell’ansia e della rabbia, ma anche del piacere e della gioia, della calma.
INTEROCEZIONE, OVVERO IL CORPO COME ENERGIA: METTERSI IN ASCOLTO
L’esistenza è una continua modificazione di aspetti energetici che avvengono nel corpo, che è ineluttabilmente destinato all’entropia. Neurocezione, propriocezione ed interocezione sono gli strumenti che il corpo utilizza per conservare la propria omeostasi, una ricerca di equilibrio psico-fisico che è sempre in un processo di movimento impermanente: un equilibrio condizionato da eventi esterni e interni
come accadimenti in ambito sociale, fisico e psicologico, per esempio relazioni interpersonali, traumi e malattie.
La consapevolezza delle sensazioni del proprio corpo risulta quindi la base fondamentale sulla quale costruire ed indirizzare la ricerca e l’ottenimento di questo equilibrio omeostatico psicofisico, attraverso una graduale conquista di resilienza e senso di sé.
L’interesse per le nostre sensazioni corporee è stato trascurato e, molto spesso, non rispettato nella nostra società contemporanea. Ci è stato frequentemente insegnato, come parte di una strategia per gestire il nostro comportamento, a rifiutare le sensazioni che il nostro corpo ci stava inviando. Se pensiamo ai processi di sviluppo all’interno di un ambiente sociale altamente strutturato, stiamo continuamente dicendo a noi stessi di non rispondere ai nostri bisogni corporei. Ci diciamo di stare seduti ancora più a lungo, nonostante possiamo desiderare di alzarci e muoverci. Proviamo anche a ritardare il momento in cui andare in bagno quando abbiamo delle urgenze e a non mangiare quando siamo affamati. Quando rifiutiamo questi bisogni e queste sensazioni, stiamo spegnendo, o almeno stiamo tentando di smorzare la componente sensoriale di un circuito a feedback che tenta di regolare i processi fisiologici.
L’interocezione rispecchia le sensazioni provenienti dai nostri visceri che raggiungono il nostro cervello. Nel momento in cui comprendiamo l’interocezione, comprendiamo che le sensazioni che derivano da stati fisiologici differenti promuovono l’accesso ad aree del cervello differenti ed influenzano le prese di decisione, il recupero dei ricordi ed altri processi cognitivi. Il processo lento ma continuo e progressivo verso la capacità di ascoltare le sensazioni del proprio corpo può essere definito come “interocezione”: questo nel senso più inclusivo della parola. Quindi lo strumento per catturare sensazioni sia endogene che esogene, per percepirle, è ancora il corpo.
Attraverso l’interocezione, dalla sensazione più elementare e grossolana alla più sottile e sofisticata, quasi granulare, che si può sperimentare con le pratiche meditative e con la pratica yoga – intesa quest’ultima come movimento consapevole e non come performance per spingere al limite od oltre il proprio corpo – attraverso l’esperienza e la disciplina, si può anche arrivare a costruire o ricostruire un senso fisico di sé e una percezione dell’esistenza come persona: questo è il percorso necessario per attuare quei processi, anche molto articolati e complessi su base neuroscientifica, di autoregolazione e resilienza del nostro
organismo e del nostro cervello: l’interocezione quindi come strumento fondamentale per la conoscenza del nostro sé (non inteso come ego o personalità) e per l’autoguarigione.
Credo che l’interocezione nelle pratiche di embodiment, intese queste come pratiche di presenza mentale e di connessione alle sensazioni del corpo, sia il principale strumento non solo per avere la percezione del nostro sé esistente ma anche la consapevolezza del nostro sé esistenziale e universale, come semplice testimone non giudicante, trascendente e spirituale: consapevolezza vuota che consente l’accettazione della vita, non importa quanto terribile possa essere stata, e quindi una reale possibilità di autorigenerazione profonda.
Istruttore Mindfulness certificato con Associazione Italiana Mindfulness (AIM), insegnante Hatha Yoga e facilitatore Trauma-Sensitive-Yoga. Fa parte dell’equipe multidisciplinare Mera-Gorini, con la quale collabora per lo sviluppo di percorsi cosiddetti di “embodiment”, individuali ed in gruppo, integrati con le attività psicoterapeutiche ed eventuali altre forme di cura e supporto al benessere psico-fisico delle persone.