“Resistenza” o sacrosanto bisogno di proteggersi?
Fin dagli Studi sull’Isteria, Freud (1895) intuiva le ambiguità che molti pazienti portano rispetto al desiderio di migliorare la propria condizione di vita. Gran parte della psicanalisi classica si è concentrata sulle “resistenze” e la rispettiva analisi.
Oggi però la visione del processo terapeutico è molto cambiata, focalizzando l’attenzione non solo su quanto accade internamente nella mente del paziente, ma sulla dinamica co-costruita fra la soggettività del paziente e quella del terapeuta. Il fattore relazionale è infatti considerato cruciale, sia come ambito nel quale contestualizzare i sintomi riferiti dai pazienti (ad es., la storia di attaccamento e le relazioni familiari attuali), sia come veicolo del cambiamento terapeutico (la relazione fra analista e paziente, come “base sicura” per esplorare i temi difficili e come modello di interazione nuovo). Tutto questo ha delle inevitabili conseguenze anche sul modo in cui dobbiamo considerare le paure connesse al cambiamento, che inevitabilmente entrano in gioco quando una persona comincia un trattamento psicoterapico.
Secondo l’approccio intersoggettivo, le cosiddette “resistenze” sarebbero il frutto della profonda paura del paziente di essere ri-traumatizzato attraverso la terapia, una paura per altro molto sensata, dal momento che lo spazio analitico è un luogo ad alta densità emotiva e dove il coinvolgimento nella relazione terapeutica espone realmente le persone ad un rischio.
Lezioni dall’oncologia: l’impatto della recidiva
Gli oncologi e chi lavora nella psiconcologia sanno bene che, per il paziente ed i suoi familiari, il momento più drammatico spesso non è la comunicazione della diagnosi, ma la scoperta di una recidiva. Di fronte alla prima diagnosi è possibile sfoderare tutto l’ottimismo, le energie e la voglia di reagire che sono disponibili.
Quando si apprende che tutti gli sforzi fatti, i capelli caduti, la sensazione di ossa rotte, i chili persi, la grinta, la rabbia con la vita che è stata repressa per far stare bene i propri cari… quando si apprende che tutto questo non è stato abbastanza per scongiurare la progressione della malattia, allora potenti sentimenti di annichilimento e demoralizzazione possono farsi strada.
Ci si attacca alle chemioterapie, a Dio, alle cure alternative, al sonno per non pensare… con la differenza che l’impatto emotivo della “recidiva” è molto più presente e pervasivo rispetto a quello vissuto quando si affronta un cancro per la prima volta.
Questa è forse una metafora un po’ forte. Come psicologi clinici siamo abituati a pensare alla “follia” come qualcosa di doloroso ma in qualche modo “non del tutto reale”, come qualcosa che può essere tenuto a distanza. Il cancro invece può colpire chiunque, e forse ad alcuni fa molta più paura dell’immersione in un delirio psicotico. Ma solo così, solo lasciandoci toccare, almeno per un momento, dall’angoscia vissuta in prima persona, possiamo comprendere davvero cosa significhi stare nei panni del paziente… la famosa “empatia”.
Nel trauma relazionale, il rischio di recidiva è sempre presente, ogni volta che ci si espone ad un contatto umano.
Per una persona che è stata travolta dal trauma, o che vi è cresciuta all’interno, la vita è come una costante lotta per non cadere nell’abisso.
Alcuni preferiscono ricorrere ad una sorta di “chirurgia esistenziale” che col bisturi rimuove la parte di umanità “malata”. Di solito si comincia con un piccolo pezzo, magari un’amicizia andata male, un rapporto di coppia. Poi ci si rende conto che il cancro ha preso altre parti dell’esistenza, magari la famiglia, altri amici, i vicini di casa, i compagni di scuola o i colleghi di lavoro. E così, pezzo dopo pezzo, la persona si ritrova ad avere asportato quasi tutto ciò che di “umano” era presente nella sua vita.
«In mancanza di un contesto intersoggettivo che integri, contenga e moduli gli affetti, il bambino traumatizzato deve dissociare l’affetto doloroso dalla propria esperienza attuale».
Storolow & Atwood, I contesti dell’essere, p. 63
La chirurgia esistenziale e i suoi effetti collaterali
Da questo tipo di dissociazione possono scaturire vari adattamenti. Alcune persone ricorreranno a stati psicosomatici o rigide scissioni mente-corpo, nelle quali al soma verrà conferito il compito di farsi testimone delle verità insopportabili e invalidate.
Altre persone potranno rinchiudersi difensivamente in un “bozzolo protettivo”, dove ritirarsi per evitare il contatto con un mondo percepito come caotico e troppo spaventante.
La persona può allora sentire di dover rinunciare a immaginare, a sperare e a provare desideri.
Per di più, quando le persone cominciano a vivere in questo modo, assai poco “umano”, si rendono conto del “qualche cosa che non va”, ma tendono ad attribuire a se stessi la colpa del proprio disagio. Si è radicato in loro un principio organizzatore, molto rigido, che impone l’autoaccusa per salvaguardare il legame di attaccamento originario, la sostituzione della propria soggettività con quella del genitore.
Questa “usurpazione della soggettività” espone il bambino a dubbi cronici sulla realtà delle proprie percezioni e ricordi, dubbi che ostacolano lo sviluppo di quella capacità di tollerare gli affetti che permette alle persone di servirsene per ottenere informazioni su di sé e sul mondo. In questo modo, ogni volta che un affetto doloroso dovesse fare capolino, la persona potrebbe percepirlo come un segnale di allarme, ciò che Bromberg (2012) evocativamente definisce “l’ombra dello tsunami”.
Ri-traumatizzazione in terapia, fra paura e realtà
La ri-traumatizzazione vera e propria si realizza quando accadono alcune circostanze, ad esempio:
- quando le esperienze di vita confermano i principi organizzatori patologici
- quando si verifica una replica del trauma originario
- quando la persona perde un legame di sostegno riparativo.
La paura della ritraumatizzazione è però costante. A volte prende la forma di un timore di venire “smascherati”, con cocenti sentimenti di umiliazione e vergogna. Quasi sempre, mina la fiducia del cliente nel processo terapeutico e nella sua volontà di lasciarsi andare ad una relazione affettivamente partecipata con l’analista.
Per un lungo periodo, può essere necessario al paziente mantenersi a debita distanza dal coinvolgimento affettivo autentico con l’analista, per proteggersi sia dalle proprie emozioni, sia dallo stesso legame con l’analista.
Allo stesso tempo, la prospettiva intersoggettiva sottolinea che le paure del paziente di essere ri-traumatizzato, pur essendo ubiquitarie, possono venire inasprite o attenuate dal modo in cui egli percepisce l’analista, nelle sue caratteristiche e comportamenti.
E’ molto importante che l’analista cerchi di comprendere come viene visto dal paziente, che cosa in particolare delle proprie caratteristiche suscitano determinati vissuti, e quale ruolo sta giocando sulla scena del dramma interno del paziente.
Offrire un ambiente empatico e contenitivo riduce le angosce e progressivamente favorisce l’avvicinamento emotivo fra paziente e terapeuta.
Le inevitabili rotture e il loro potenziale
Per quanto l’analista possa sforzarsi di ascoltare con comprensione empatica il punto di vista del paziente, è inevitabile che prima o poi si verifichino delle rotture nella sintonizzazione reciproca e che, in alcuni passaggi del percorso analitico, entrambi i partner coinvolti diano luogo ad una rappresentazione dei loro fantasmi interiori, ciò che in linguaggio tecnico viene chiamato “enactment”.
Le crisi nella relazione terapeutica, oltre che inevitabili, sono anche dei momenti molto utili per portare a delle svolte evolutive, se ben comprese e gestite.
Ogni volta che il terapeuta si rende conto di uno stato di impasse o di esplicita collisione nel rapporto analitico, è importante che si adoperi per esplorare a fondo :
- le caratteristiche ed i comportamenti personali (dell’analista) che hanno portato alla crisi,
- i princìpi organizzatori del paziente che hanno plasmato il suo significato della crisi (come percepisce sé stesso e il terapeuta),
- il trauma originario di cui l’attuale crisi è una replica, e le risposte che il paziente si aspetta di ricevere qualora esprimesse i propri sentimenti dolorosi legati alla crisi con l’analista.
Una indagine del genere permette di recuperare ed eventualmente ampliare la qualità della relazione terapeutica, di far emergere in modo più spontaneo i desideri evolutivi del paziente che erano rimasti congelati e, in definitiva, di riattivare il processo evolutivo che permette di integrare gli affetti dolorosi e trasformarli, ampliando la “finestra di tolleranza affettiva” del paziente.
I terapeuti sono in grado di mettersi in gioco?
A volte la persona che fatica a rendersi conto delle proprie paure e che ostacola, seppure involontariamente, la possibilità di accogliere i racconti traumatici, è proprio l’analista.
Ogni paziente traumatizzato è un bambino traumatizzato, ed ogni analista che si occupa di trauma, deve essere in grado di fare i conti, prima ancora che col bambino che è nel paziente, col bambino che è dentro di lui.
La dissociazione e la “resistenza”, si dispiegano quando al bambino interiore viene negata la possibilità di sentirsi riconosciuto e validato nei suoi sentimenti.
Se il terapeuta continua a disprezzare la rappresentazione interna del sé-bambino, sarà molto difficile per il paziente sentirsi libero di condividere la propria storia traumatica. Se invece il terapeuta riesce a sopportare le proprie emozioni infantili, sarà in grado di accogliere i vissuti analoghi del paziente, creando le condizioni affinché la narrativa traumatica possa emergere.
Il percorso per arrivare a una simile narrazione è, con ogni probabilità, costellato da intenso dolore. È importante che il terapeuta sia pronto ad affrontare e stare vicino al paziente anche nel pieno della tempesta emotiva, mostrandogli la crescente comprensione del contesto emotivo originario e attuale.
Purtroppo, a volte i clinici sono mossi da un bisogno compulsivo di alleviare le sofferenze dei loro clienti, per la loro incapacità di tollerare il loro dolore.
Ciò impedisce di vedere il processo psicologico sottostante, e accade più frequentemente quando l’analista, nella sua storia famigliare, ha svolto il ruolo di sostegno emotivo per i propri genitori, per evitare che cadessero in stati di agonia annichilente, che lo aggredissero o lo abbandonassero emotivamente. Quando tali ruoli famigliari non vengono elaborati, continuano a modellare inconsciamente le attività del presente, compresa la tensione ad alleviare il dolore dei pazienti che, di fatto, collude ed ostacola l’obiettivo di “affrontare la verità di una vita”.
Karen Lyons-Ruth è una terapeuta e ricercatrice che ha condotto interessanti studi longitudinali (cioè, seguendo nel tempo la crescita dei bambini) sui predittori degli stati borderline e dei tentativi di suicidio in adolescenza. Dalle sue indagini è emerso che molti bambini con attaccamento disorganizzato a 1-2 anni di età (la forma più patologica del legame genitore-figli, presente solitamente quando ci sono dei traumi agiti sul bambino, ad es. abusi fisici o psicologici, o traumi non risolti dei genitori), quando arrivano alla fase della media fanciullezza, trasformano i loro comportamenti esprimendo un un accudimento compulsivo verso il genitore. Sono bambini servizievoli, iper-vigilanti verso il benessere emotivo del genitore, oppure bambini severi che criticano il genitore “bambinone”, suggerendogli cosa sia giusto fare. In questo modo, il bambino recupera una dimensione di controllo, che gli consente di sopravvivere alla devastante sensazione di essere in balia di un genitore impotente, che non lo sa guidare e proteggere, oppure spaventante.
Molti terapeuti e operatori del sociale, consapevolmente o inconsciamente, approcciano la professione di aiuto per regolare i propri stati interni frammentati, il proprio dolore che è stato rinnegato che, ironicamente, rischia di invalidare anche l’esperienza attuale del paziente.
La sicurezza di una sopravvivenza senza rappresaglie
È quindi davvero importante che i terapeuti abbiano ben affrontato i propri demoni interni. Solo così potranno tollerare di essere visti dai loro pazienti come inaffidabili, incapaci, coercitivi… Sopportare di non essere un “bravo terapeuta”… per aiutare i pazienti a sopportare di non essere stati i “bravi bambini” dei loro genitori.
Si potrebbe dire che
i terapeuti devono essere pronti a lasciarsi distruggere, potendo però sopravvivere.
Qui sta la vera sicurezza, quella famosa “base sicura” che consente ai pazienti di esplorare se stessi e, quando saranno pronti, spiccare il volo… è la sicurezza di una sopravvivenza senza rappresaglie. È la sicurezza di poter esprimere anche la parti più distruttive di se stessi, sapendo che il proprio terapeuta sarà in grado di incassare il colpo senza annichilirsi, arrabbiarsi o ripudiare il paziente. E che, se il paziente dovesse “esagerare”, il terapeuta saprà prendersi cura di se stesso e mettere al riparo sé e la relazione. In questo modo, il paziente può sentirsi libero dall’invischiamento nei bisogni dell’altro.
“La sicurezza di una sopravvivenza senza rappresaglie significa che l’incontrollabilità e l’imprevedibilità dell’altro possono diventare una fonte di gioia”.
J. Benjamin, 2015, p. XXXVII
Bibliografia:
Atwood, G. (2016). L’abisso della follia. Roma: Giovanni Fioriti.
Benjamin, J. (2015). Legami d’amore. Milano: Raffaello Cortina.
Bromberg, P.M. (2012). L’ombra dello tsunami. Milano: Raffaello Cortina.
Lyons-Ruth, K. (2003). Dissociation and the parent-infant dialogue: A longitudinal perspective from attachment research. Journal of the American Psychoanalytic Association, 51(3), 883-911
Lyons-Ruth, K. (2007). The interface between attachment and intersubjectivity: Perspective from the longitudinal study of disorganized attachment. Psychoanalytic inquiry, 26(4), 595-616
Storolow, R.D., & Atwood, G.E. (1995). I contesti dell’essere. Torino: Bollati Boringhieri
Storolow, R.D., Brandchaft, B., Atwood, G.E, Fossaghe, J., & Lachmann, F. (2004). Psicopatologia intersoggettiva (II ed). Urbino: Quattro Venti.