Di STEFANIA POZZI
Abbiamo promesso una rubrica dove parlare di resilienza, ossia della capacità umana di reagire in modo costruttivo alle circostanze di vita sfidanti. Ecco il primo articolo!
Parto da quello che, secondo me, rappresenta il punto zero dei discorsi sulla resilienza: è un paradosso.
A volte, per “tenere duro”, dobbiamo accettare la possibilità di essere fragili. Affrontiamo la vita con coraggio se possiamo permetterci di essere, anche e a volte, un po’ fifoni. Nella mia esperienza le persone che, nel medio e lungo termine, hanno saputo adattarsi meglio ai cambiamenti di vita, sono quelle che hanno attraversato l’ondata di perturbazione lasciandosi in qualche misura piegare, quel tanto che non spezza.
La “crisi” è, etimologicamente, un cambiamento che si impone e richiede una presa di decisione. A volte si va “in crisi” quando nel ciclo di vita si devono prendere decisioni affettive, come la scelta del matrimonio o di avere o non avere dei figli. Altre volte la crisi emerge dopo un evento specifico, che sconvolge l’equilibrio personale. Spesso non decidiamo ciò che la vita ci riserva, tuttavia vi è sempre una decisione interna da prendere rispetto al come affrontarla.
Di fronte a certi eventi, l’impressione è come di puzzle da 1000 pezzi a cui ci siamo dedicati per anni, che, finalmente ultimato, viene sbattuto per aria. Bisogna ricominciare a sistemare i pezzi, solo che non sempre è possibile rimetterli nella stessa posizione di prima. Il processo per decidere dove collocarli ci richiede di stare molto vicini alle varie parti di noi stessi che reagiscono, in modi diversi, all’esperienza. Ci saranno parti spaventate, che vogliono sentirsi rassicurare, parti arrabbiate, che premono per fare qualche azione, parti ottimiste, che si interrogano con curiosità sul futuro, e così via. Giorno dopo giorno, ognuna di queste parti fa capolino sulla scena affettiva, esprimendo il proprio punto di vista su come ridisegnare il puzzle dell’esistenza. Per rimescolare i vari pezzetti del puzzle e trovare il nuovo equilibrio, bisogna dare ascolto al dolore del distacco di ciascun pezzo, tollerare l’incertezza sul dove ricollocarlo, e infine sviluppare consapevolezza della sua futura destinazione. Una consapevolezza incarnata, emotiva e sensoriale.
Spesso la cultura ci abitua a pensare che forza e fragilità siano due opposti, o si è l’uno o si è l’altro. Le persone resilienti sanno che il confine non è proprio così nitido, che si può essere entrambe le cose. L’una non esclude l’altra.
Una signora, descrivendo i suoi stati d’animo di fronte alla diagnosi oncologica ed all’intervento chirurgico che modifica l’immagine corporea, si accorgeva di come, dopo la prima fase di reazione “grintosa”, era subentrato un sentimento di maggiore vulnerabilità. «Mi sento forte e fragile allo stesso tempo. Sotto, so che sono sempre la stessa, che c’è la forza. In superficie però mi sento come un mare in tempesta». Era così. Anche i punteggi al test di screening per l’ansa e la depressione segnalava uno stato di disagio psicologico acuto, di rilevanza clinica. Eppure, anche in quei momenti, ero profondamente convita che quella donna stesse affrontando la sua crisi come una vera regina. Sapevo che quel dolore, inevitabile, presto avrebbe alimentato un percorso di crescita interna, che le permetterà di continuare a vivere in modo soddisfacente, coltivando legami con le persone care e valide, potando i rami secchi, e sviluppando un senso di “forza” che la sosterrà nelle fasi successive.
Ecco, resilienza è innanzitutto saper attraversare il paradosso. Permettersi di rimanere a contatto con la tensione fra spinte e bisogni opposti, senza l’urgenza eliminare l’uno o l’altro lato del continuum. Quello tra forza e vulnerabilità è solo uno dei tanti paradossi della resilienza.
Ovviamente, questo discorso non implica che ogni reazione depressiva sia funzionale. A volte le persone cadono dentro un abisso di non-senso e depressione, che rischia di trascinarle sempre più a fondo. Il clinico ha la responsabilità di ponderare questo rischio, predisponendo tutti gli interventi necessari per evitare che il disagio si cronicizzi o diventi pericoloso. Il fatto però che la persona sia consapevole soggettivamente della fatica emotiva, è un presupposto imprescindibile per poter elaborare il processo di cicatrizzazione della ferita che consentirà, infine, una autentica guarigione interna.