Di Andrea Ferella e Stefania Pozzi
In questo articolo troverai spunti utili per:
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Conoscere una preoccupazione abbastanza comune, l’ansia di malattia (o “ipocondria”), sfatando alcuni stereotipi
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Vedere il ruolo dell’ipocondria nelle relazioni familiari
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Comprendere la sua funzione (preziosa!) di “sentinella” nell’equilibrio mentale
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Sapere cosa è possibile fare per affrontarla, in modo da crescere e stare meglio
…Buona lettura!!
Argante, ricco padre di famiglia, da lungo tempo giace nella morsa dell’angoscia, convinto di avere una malattia terribile per la quale ha già contatto molti medici esperti. Tonina, sua serva fedele, lo mette in guardia dai medici-imbroglioni che, approfittandosi del suo timore, gli sottraggono molto denaro, visita dopo visita, esame dopo esame. In tutta risposta, Argante convoca sua figlia Angelica per imporle il fidanzamento con il figlio di uno di questi dottori, sperando che, coinvolgendo le famiglie, qualcuno si sarebbe sempre preso cura di lui.
Così Molière dà avvio all’opera in tre atti de “Il malato immaginario”, commedia-balletto del 1673 volta a farsi gioco di una certa tipologia umana rallegrando gli animi del re di Francia Luigi XIV e dei suoi cortigiani.
Ancora oggi molte persone pensano all’ipocondria come ad una farsa. Da un certo punto di vista si potrebbe leggere del vero, nel senso che l’ipocondria è una condizione clinica nella quale l’individuo è convinto di avere un male terribile, per il quale si rivolge a numerosi specialisti senza però trovare mai quel riscontro biomedico capace di rassicurarlo. In altri casi, la persona tende ad esagerare sui propri sintomi, fino ad arrivare a soffrire di angoscia e depressione.
Secondo il manuale diagnostico statistico per le malattie mentali (DSM-V) l’ansia di avere una malattia può essere diagnosticata quando la persona è convinta di soffrire di almeno due diverse patologie gravi di cui conosce approfonditamente i dettagli sintomatologici di almeno una di esse; si sottopone ad una serie di esami fisici, dai quali non risulta alcun segnale dei problemi segnalati; prova una eccessiva preoccupazione per la qualità delle esplorazioni mediche; il malessere persiste per oltre sei mesi avendo conseguenze sulle prestazioni lavorative e nelle relazioni interpersonali.
Ok, l’ho diagnosticata, e adesso?
Luca contatta il proprio medico di medicina generale per una intensa angoscia che negli ultimi tempi si è presentata con una certa insistenza. Nel descriverla è convinto di soffrire di ipertensione arteriosa e di avere i classici sintomi di un ictus. A nulla serve rassicurare e spiegare che questi sintomi non esistono oggettivamente, ma sono frutto di un’eccessiva paura di avere malattie gravi non diagnosticate.
La paura è un meccanismo naturale che tutti mettiamo in atto e serve per allertarci dai pericoli, ma una eccessiva e reiterata preoccupazione può portare ad uno schema mentale disfunzionale che può compromettere la qualità della vita.
In questi casi diventa fondamentale ridurre la paura per riportarla nei limiti entro i quali diventa utile per l’esistenza. Tuttavia, come riportato nell’esempio
la semplice rassicurazione su base “logica” di solito non sortisce alcun effetto, anzi, spesso fa sentire la persona ipocondriaca ancora più incompresa e sola.
Per capire come affrontare questa paura, cerchiamo prima di comprendere cosa comporta per l’individuo e la famiglia, e “a cosa serve”, cioè la sua funzione nell’equilibrio psicologico.
L’ipocondria nella vita quotidiana
A livello soggettivo, l’ipocondria è una condizione terribile. Chi ne soffre vive continuamente nel timore di potersi ammalare. Non ha un attimo di tregua: ne ha sempre una, non si sente mai in forma e pienamente in equilibrio. Non c’è nessuna visita medica o esame specifico che lo rassicuri e tranquillizzi. Il ricorso ad Internet poi è all’ordine del giorno per trovare notizie ed informazioni che giustifichino e dimostrino il suo malessere, ma di solito questa abitudine amplifica le angosce, oltre a fornire informazioni non sempre attendibili.
Sfatiamo alcuni stereotipi …
C’è comunque da sfatare una credenza molto radicata quando parliamo di ipocondria, cioè quella di identificarla con la vecchiaia. Infatti è opportuno sapere che la maggior parte delle persone ipocondriache, sono uomini di età attorno ai 30 anni e donne sui 40 anni.
La “maniacalità” con la quale gli ipocondriaci studiano con attenzione il corpo umano e la sua fisiologia arriva fino a competere con il proprio medico che, esausto dalle loro richieste, rischia di finire con l’assecondare continue prescrizioni ed analisi inutili (oltre che costose).
La ricerca di una diagnosi che giustifichi il proprio malessere diventa allora uno degli obiettivi fondamentali a cui tendere che però impegna energie e risorse in continuazione.
Così facendo, in modo subdolo ma continuo, la salute e le patologie diventano l’unico argomento di interesse e conversazione. Risultato: le relazioni sociali e interpersonali si deteriorano e lasciano la persona sempre più sola.
In aggiunta, questo modo di vivere può condizionare tutto il sistema famigliare, in quanto a volte le persone vicine (un genitore, il proprio compagno o compagna, moglie, ecc…) vengono coinvolte nei rituali di ispezione del corpo, nell’accompagnamento alle varie visite mediche, o in altri modi degenerati di aumentare il senso di controllo sulla propria salute, come ironicamente descritto da Moliére.
Il malato immaginario: solo una “messa in scena”?
Se ad uno sguardo “razionale” l’ipocondria sembra una paura senza senso, a livello soggettivo il senso psicologico c’è ed è molto profondo.
Le persone con l’ansia di malattia stanno lanciando un SOS di salvataggio riguardante una diversa dimensione dell’esistenza umana.
Ascoltare la preoccupazione vuol dire riuscire a vedere il corpo, e l’ipocondria stessa, come una metafora di processi psichici molto complessi.
Secondo la prospettiva intersoggettiva, i sintomi psicologici molte volte sono il portavoce di una “verità soggettiva” che richiede di essere ascoltata. Per vivere come esseri umani, tutti noi abbiamo bisogno di sentire che le nostre esperienze interne, ciò che noi sentiamo come “il senso” di quello che facciamo e che gli altri fanno a noi, sia visto e riconosciuto da qualcun altro.
Lo sviluppo sano della soggettività:
Quando c’è riconoscimento e validazione per il nostro modo di sentire, allora cresciamo come esseri umani, potendo contare sul fatto che le nostre percezioni ci restituiscono un mondo coerente, magari triste o spaventante, ma comunque comprensibile.
Questo traguardo viene raggiunto in modo adeguato quando il bambino, man mano che fa esperienze, trova una conferma sulla realtà di quello che ha vissuto. Non si tratta di “dare ragione” al bambino, bensì di riconoscere la validità di ciò che egli percepisce, trasmettergli la comprensione per l’esistenza di una sua visione soggettiva.
Un esempio può essere quello del genitore che, di fronte ai rifiuti del bambino di assumere una medicina necessaria in quanto amara, gli dica: “hai ragione, fa proprio schifo! però ti serve per guarire, mi dispiace che dovrai ingoiare un sapore così amaro, ma è davvero importante”. In questo esempio di vita quotidiana il genitore, pur esortando il bambino a fare la cosa “giusta”, riconosce la sua percezione della medicina come “amara”.
Quando il treno dello sviluppo subisce un deragliamento:
A volte ai bambini viene negata questa possibilità e, se ciò avviene in maniera cronica, il rischio è che sviluppino dubbi sulla realtà o consistenza delle proprie percezioni, sentendosi sempre in balìa dell’esterno e a rischio di vedere sfumare il proprio senso del Sé.
Un problema ulteriore è quando l’invalidazione riguarda esperienze traumatiche, che il bambino può avere subito. In tal caso, non è solo una quota di soggettività ad essere misconosciuta, ma anche la portata della sofferenza patita dal bambino, che a questo punto rimarrà una sofferenza “senza nome” e senza spiegazioni plausibili.
Questo purtroppo riguarda la maggioranza dei casi di abusi e maltrattamenti su minori: di solito, gli adulti che omettono di proteggere o che attivamente perpetuano l’abuso, minimizzano i fatti e/o il loro impatto sul bambino, o addirittura non credono alle parole dei loro figli quando denunciano ciò che hanno subito. Questo crea un trauma ben maggiore di quello oggettivamente accaduto, perché il bambino perderà la fiducia nella propria capacità di orientarsi nel mondo, proverà sentimenti terribili che potrà imputare solo a se stesso, e non avrà una relazione capace di calmarlo e aiutarlo a regolare il proprio stato di allarme.
A questo punto la psiche, che è molto creativa, può ricorrere ad un espediente ingegnoso per mantenere vive due necessità fondamentali, ma incompatibili: il bisogno di esprimere e testimoniare la propria “verità soggettiva” ed il bisogno, altrettanto potente, di mantenersi legati alle persone da cui dipendiamo emotivamente (per il bambino, i suoi genitori o chi si prende cura di lui).
Inconsapevolmente, le esperienze soggettive misconosciute vengono espresse in modo molto concreto, “incapsulate” dentro sensazioni somatiche, azioni o immagini (ad es., fantasie e sogni) che le esprimono in modo simbolico. Non si tratta di strane simbologie astratte, è tutto molto più lineare e intuitivo di come possa apparire.
Una storia di vita
Chiara è una ragazza di 20 anni, magra e pallida. Si rivolge ad uno psicologo per fare fronte ad uno stato di forte ansietà acuitosi negli ultimi sei mesi, e ad una percezione di sé come fragile e “dipendente”, attributi che non le piacciono e che vorrebbe cambiare, diventando più “autonoma”.
Nei primi colloqui colpiva il modo in cui Chiara parlava di sé come “una collezione di sintomi”. Si era auto-diagnosticata l’ipocondria, ma ciononostante continuava a temere di avere qualcosa di più grave, accusando vari sintomi fra cui emicrania, la sensazione di una “testa tappata”, il timore di svenire, per i quali aveva già consultato diversi neurologi. Un paio di volte le era anche capitata l’angosciante sensazione di non riuscire a riconoscere il proprio corpo: tastando un braccio, aveva pensato con orrore che non fosse “il suo”. Da alcune settimane le capitavano degli scoppi di pianto improvvisi e per lei “inspiegabili”.
Guardando agli eventi di vita recenti, si notava che la ragazza stava affrontando un cambiamento di vita importante, con l’inizio dell’università, il trasloco, l’occasione di conoscere e farsi conoscere da nuove persone, di sperimentare un lato di sé più creativo e intraprendente. Poco dopo scoprimmo che, nei sei mesi precedenti, la madre era stata colpita da un tumore, curato ma del quale ancora in famiglia non si poteva parlare.
Nella storia personale e familiare pregressa emergeva un quadro fatto da rapporti freddi, distaccati. I genitori riuscivano a prendersi cura di lei attraverso gesti concreti, come comprare caramelle, ma erano del tutto incapaci di comunicare affetto (mai un “ti voglio bene” o qualche altra espressione del loro legame per lei). Quando lei chiedeva aiuto per risolvere dei problemi, i genitori, invece di sostenerla a trovare la soluzione, si sostituivano a lei, col risultato di farla sentire depauperata della personale iniziativa e ancora più insicura sulle proprie capacità.
Inoltre, per diversi anni Chiara era stata vittima di bullismo, con vari episodi in cui dei bambini del quartiere l’avevano derisa pubblicamente, umiliata e maltrattata anche con percosse fisiche. Nel ricordare quei fatti, Chiara sottolineava come i suoi aggressori sapevano perfettamente quali fossero i suoi punti deboli e miravano dritto a quelli.
In tutto ciò, nessuno dei suoi genitori si era attivato per andarle in soccorso. Il padre era sempre in giro per lavoro, la madre, pur passando più tempo a casa, sembrava talmente assorta nei propri pensieri da non notare nemmeno la presenza della figlia. A volte Chiara le faceva presente il suo sguardo assente, ma la mamma negava ogni cosa.
Nel corso della psicoterapia, prestai particolare attenzione al modo in cui Chiara parlava di sé, dei suoi sintomi. Era come sforzarsi di stare a stretto contatto con essi, ascoltanoli “per quello che esprimevano”. Se avessi cercato di farle notare la mancanza di oggettività per i suoi timori, avrei solo rafforzato il suo vissuto di incomprensione e saremmo finite in un vicolo cieco.
A livello affettivo, Chiara soffriva della “paura di essere colta alla sprovvista”, di “non essere attrezzata” per un eventuale pericolo… da cui l’esigenza di fare ripetuti controlli medici per rassicurarsi di non avere un incipit di malattia grave.
Piano piano, cominciammo a ricostruire i ponti interrotti che collegavano le diverse aree della sua esperienza, dal rapporto col corpo (col quale si era al contempo molto identificata ma anche distaccata), a quello con la sua autostima e con le persone amate. Ma fu molto importante rispettare i tempi necessari per un confronto graduale con gli affetti dolorosi, dai quali Chiara tentava di proteggersi tenendo le distanze o rinchiudendoli dentro il territorio delimitato (e controllabile) del sintomo somatico.
A cosa serve l’ansia di malattia?
La storia di Chiara ci permette di vedere come le ansie ipocondriache a volte servano a drammatizzare o segnalare una catastrofe psichica incombente, una minaccia al Sé psicologico, come se fossero le sentinelle poste in avvistamento del nemico sopra le mura di una città malamente fortificata.
Allo stesso tempo, questa storia ci dice pure un’altra cosa: l’ipocondria e stati transitori di depersonalizzazione possono manifestarsi anche durante fasi di cambiamento evolutivo, quando le persone, che in precedenza si sentivano “bloccate”, cominciano a dedicarsi a nuove attività, ad esplorare parti di sé più creative e positive, o comunque quando l’immagine di se stesse – a cui erano abituate-, cambia. Il cambiamento è sempre fonte di preoccupazione, perché non sappiamo con certezza dove ci porterà, anche quando possiamo intuire che la direzione è verso un modo di essere più positivo e soddisfacente.
Quando si sviluppa l’ansia di malattia?
Di solito, le persone ipocondriache hanno alle spalle una storia familiare dove le figure che si prendevano cura di loro facevano fatica a riconoscere i loro bisogni e non riuscivano a sintonizzarsi coi ritmi del bambino. Queste mancate sintonizzazioni, insieme ad eventuali eventi traumatici, impediscono al bambino di sviluppare il senso di “abitare il proprio corpo”. Il corpo viene così tenuto molto separato dalla mente, come se fossero due entità totalmente scollegate. Il corpo può allora diventare il portavoce del senso di angoscia, che sopraggiunge sia quando la psiche è davvero “a rischio”, sia quando stiamo per affrontare una sfida evolutiva, che potrebbe farci crescere ma che, al momento, è avvolta nel mistero.
Altri fattori che vengono riscontrati nelle storie delle persone con ipocondria sono:
- Un’educazione basata sulla paura o su una eccessiva protezione. Si può scoprire che da piccoli hanno avuto un’educazione iperprotettiva, con eccessiva preoccupazione per la salute fisica, oppure che l’educazione passava solo attraverso l’inculcare al bambino il senso di pericolo e paura.
- Esperienze traumatiche a stretto contatto con la malattia o la morte. Si può trovare che nel proprio vissuto, la persona stessa ha sofferto di una malattia grave, o ha vissuto l’esperienza di prendersi cura di un familiare malato gravemente.
- Interpretazione sbagliata dei sintomi. Molto spesso l’ipocondria si scatena a partire da sintomi che sono male interpretati. Questa persona possiede una discreta informazione a livello medico e si spaventa in presenza di qualsiasi tipo di segnale. Per esempio, può confondere una contrattura muscolare nel braccio sinistro con la presenza di un infarto o il mal di testa persistente con un tumore o un’emorragia cerebrale
Come ci si può liberare da queste paure?
Spesso le persone con ipocondria, proprio perché si sentono cronicamente non capite e faticano a connettere “mente e corpo”, si rifiutano di sottoporsi ad un trattamento terapeutico, vissuto come ennesima conferma del fatto che gli altri li vedono “solo” come dei malati immaginari. È molto utile che nei colloqui psicologici vengano esplorati i traumi del passato e gli eventi stressanti recenti che hanno compromesso la coesione di fondo dell’esperienza soggettiva.
Se l’angoscia è debilitante, prima di avventurarsi nell’esplorazione bisogna innanzitutto aiutare la persona a ritrovare un sufficiente benessere emotivo, eventualmente considerando un supporto farmacologico insieme ad uno specialista e/o delle tecniche per gestire l’angoscia che facilitano il miglioramento della qualità di vita e il recupero di una socialità più funzionale.
A questo punto, si dovrebbe puntare a cambiare quei processi psicologici da cui l’ipocondria si genera e autoalimenta: attraverso il dialogo col terapeuta
è importante creare la possibilità di accogliere e trattare con cura le parti vulnerabili, valorizzare le nostre capacità e dare ascolto alla “verità soggettiva” di cui tutti sembrano dimenticarsi.
Bibliografia
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